L’educazione diffusa. Un’idea di un mondo diverso.
di Paolo Mottana (da post pubblico su Facebook del 25 marzo 2023)
Oggi un amico, un giornalista che ci segue fin dai primi tempi dell’educazione diffusa, forse l’unico, mi ha raccontato che presso molti che lui frequenta l’educazione diffusa viene percepita niente più che un mandare i ragazzi a far “scuola” in città o nei boschi.
Faccio una lunga pausa per prendere fiato perché il giramento di marroni è furioso.
Per carità, nessuna pretesa che si conosca il lavoro che insieme a Campagnoli faccio da anni. Io sono un nulla, una x nel ciclo dell’azoto, come diceva De Gregori però che si dica una simile minchiata è oltre ogni sopportazione. Significa malafede, ignoranza e spocchia, tra le tre peggiori calamità nel mondo della conoscenza. Se non sai nulla, taci almeno. Non pretendere di tranciare cazzate su ciò che nemmeno lontanamente conosci. Se non hai letto i tre e più libri che abbiamo pubblicato, gli innumerevoli post e le pochissime (certo, occorre riconoscerlo) fonti che hanno tentato di diffondere per esempio il nostro Manifesto dell’educazione diffusa, sei giustificato. Ma CAZZO TACI!
Viene fuori che noi non avremmo un’idea di mondo diverso! Quando ogni volta dobbiamo impiegare tempo infinito a spiegare che l’educazione diffusa non è la solita, quella sì innocua, prassi di portare i ragazzini a pisciare in giardino o fargli fare la gitarelle nei prati ma è rovesciamento radicale del rapporto tra educazione e società. Che noi vogliamo cambiare la società, non la scuola, che vogliamo che sia la società che si riassuma il suo compito e la sua responsabilità nei confronti dei suoi figli rimettendoli nelle condizioni dei partecipare, collaborare e crescere sperimentandosi nella vita comune con tutti. Che la società che vogliamo è super integrata in tutte le sue generazioni, che per operare questo deve rallentare, ripensarsi nelle sue forme, strutture, economie, valori e che occorre che si guardi attraverso gli occhi di chi cresce in essa e non delle società di rating.
Che della scuola, struttura totale di genesi gesuita, dispositivo di assoggettamento e di educastrazione non vogliamo più sentir parlare proprio perché è radicalmente contraria alle necessità fondamentali della vita e della vita in particolare di chi si affaccia al mondo.
Come non vedere che l’educazione diffusa prova a disegnare un mondo totalmente inedito che solo un pazzo sapiente come Illich poteva avere preconizzato o Fourier o pochi altri?
Dite pure che è utopica, con la smorfietta da stronzi che hanno oggi quelli che tacciano di utopia tutto ciò che esorbita dalla loro visione neoliberista e distruttiva della vita, dite che è irrealizzabile con la ghigna dei pragmatisti e degli stakeholder dell’educazione come dell’ultima preoccupazione di ogni governo sfruttatore da che mondo è mondo.
Ma non dite che è semplicemente portare i ragazzi a far scuola all’aperto.
Qui mi incazzo davvero.
Per carità, come già detto, nessuno sa cosa sia l’educazione diffusa. Siamo nessuno. I nostri libri non si trovano nemmeno in libreria, nessun organo di stampa si è mai preoccupato di parlare dell’esperienza di Gubbio o di quella di Cagliari o comunque delle nostre idee.. Non sono suffragate da sufficienti statistiche e comunque non piacciono, sono troppo fuori dalla gaussiana. Forse che qualche giornalista che si occupa di educazione ha mai chiamato me o Campagnoli a parlarne su qualche organo di stampa, fosse anche un organo piccolo come un testicolo? Mai. Chiamano chiunque, anche la scuolina di Nonsodove che ha portato i bambini a salutare le pecore ma non l’educazione diffusa. E se per caso accade la chiamano scuola diffusa, che non c’entra niente, specie se a farla sono i valenti eroi dell’Emilia Romagna, gli unici innovatori in Italia, insieme a nomi che è meglio non faccia e che, come è evidentissimo, hanno cambiato il volto dell’educazione in questo paese.
L’école






Avevo un conoscente giornalista che mi ha chiamato una volta su una radio, salvo che poi durante la trasmissione si è dimenticato di lasciarmi spazio. Un’altra giornalista, che conoscevo sull’Espresso, che ammirava i miei libri al punto di definirli “si leggono come romanzi”, quando le ho chiesto se per caso potevo aspirare a fare una rubrichino sulla loro rivista, è sparita senza più rispondere nemmeno ai miei messaggi.
Tempo fa una consulente in comunicazione si era presa la briga, diceva lei, di “resuscitare il morto”, dicendo che io avevo grandi talenti ma ero un idiota a comunicare (e con questo post evidentemente confermo la sentenza). MI mise sotto dicendo che in breve mi avrebbe fatto pubblicare sulla grande stampa. E in effetti ci riuscì, sulla Lettura del Corriere. Solo che l’articolo che comparve non era più mio, era stato totalmente cambiato da lei, al punto dia essere irriconoscibile. Quando iniziai a lamentarmi lei mi insultò dicendo che ero un coglione, un imbecille e che non avevo capito nulla. E mi abbandonò, con mio sollievo devo dire.
Lo so che l’educazione diffusa non sarà per molto tempo ancora un’idea à la page. Se lo fosse vorrebbe dire che il mondo è andato sottosopra. Cosa che mi auguro prima o poi. Di sicuro dopo che sarò morto da tempo.
Quello che non sopporto però è di essere sottostimato, frainteso in malafede, spacciato per un coglione qualsiasi. Sono un coglione per tanti versi, probabilmente per come comunico (neanche il giornalista che conosco pubblicherà questo pezzo: troppe parolacce, troppo di pancia, troppo poco amichevole) e mi comporto e forse anche per certe mie idee oltranziste che han fatto perdere la pazienza a certi miei colleghi al punto di togliermi il mio principale insegnamento e sostituirlo con uno dove vengono quattro studenti. Una spiegazione è che io “plagerei” i miei studenti. Traduzione: li convinco, li persuado, li attivo. Quello che un insegnamento non deve mai fare. Non lo metto in dubbio.
Però l’educazione diffusa non è mandare studenti a fare scuola in città (FARE SCUOLA!!!), è totalmente altro ed è scritto nero su bianco nei nostri libri, sorretti da una filosofia politica forgiata in lunghi anni di esperienza e di studio di cui sono testimonianza molti altri volumi e conferenze e battaglie, sulla controeducazione, la gaia educazione e l’antipedagogia. So che questo non piace, mica mi illudo, sono anni che non vengo invitato a uno convegno dalle beghine dei miei colleghi di pedagogia né da quasi nessun altro. Per carità una fortuna perché quei convegni sono la peggior perdita di tempo che a uno possa capitare. Però questo è il segno.
Siamo sulla strada giusta. Quando così tanti culi di piombo nel mondo ci ostacolano e ci ignorano vuol dire che noi voliamo alto. E prima o poi qualcuno se ne accorgerà. Forse non i conoscenti del mio amico giornalista che purtroppo non scrive su grandi testate. E d’altra parte, se scrivesse lì, potrebbe mai esser un amico?
