Approfitto del cambiamento di direzione del quotidiano il Manifesto per riprendere un discorso interrotto bruscamente un po’ di tempo fa dopo una diatriba antipatica sulla mancata accoglienza o forse meglio sul boicottaggio dell’unico quotidiano che avrebbe potuto abbracciare, appoggiare e divulgare l’idea rivoluzionaria dell’educazione diffusa. La diatriba a mio avviso aveva una ragione ideologica che forse ancora persiste e che intendiamo superare almeno con un dialogo riaperto verso la nuova gestione che si spera meno massimalista.

Ho provato diverse volte a coinvolgere il giornale se non altro perché desse un po’ di spazio alla nostra idea di educazione, sicuramente fuori dal recinto istituzionale. Abbiamo rilevato nel tempo tanta disattenzione non solo della sinistra nostrana parlamentare (ed era ovvio) ma, sorprendentemente anche da quella per tradizione autonoma e antagonista. Gli articoli del quotidiano nella fattispecie si sono sempre limitati a proporre punti di vista di insegnanti, esperti e giornalisti privi del necessario coraggio di andare oltre le seppur valide idee gramsciane che erano i presupposti di rivincita sociale contestualizzate però ai tempi di una scuola ben più classista, discriminatoria e da combattere esclusivamente con la parola d’ordine forse ormai desueta e propria di una concezione egemonica della pedagogia: “Lo studio è un lavoro, la scuola va considerata un lavoro, le ore a scuola sono ore di lavoro senza doverle alternare con altre attività che, automaticamente, verrebbero a privare il lavoro della scuola di quello che esso è nella realtà: appunto, lavoro”.

Massimo Baldacci è stato uno dei pedagogisti interpreti di queste idee che noi riteniamo in parte obsolete ad eccezione di alcuni principi base che da sempre si sono mantenuti nella storia della pedagogia cosiddetta “sovversiva”. L’aspetto pedagogico Gramsciano ha avuto attenzione negli anni ’60 con una sequenza ondivaga fino ad oggi. La sua filosofia della praxis ne era il fondamento ma venendo progressivamente meno vanifica l’impostazione in merito alla pedagogia. L’educazione viene presentata come “lotta contro”. In particolare si parla di lotta contro il folklore per una concezione che unisce la legge naturale con la partecipazione attiva dell’uomo alla vita della natura. Si tratterebbe di una lotta tra egemonie: quella della cultura superiore impartita a scuola e quella del senso comune che caratterizza l’ambiente. Una lotta anche contro una mentalità subalterna per crearne una nuova, superiore e caratterizzata dalla stretta connessione tra attività intellettuale e lavoro tecnico per superare la distinzione tra dirigenti e subalterni attraverso un progresso culturale di massa per la costruzione di una figura di uomo completo, produttore e cittadino al tempo stesso.

Antonio Gramsci è stato uno dei personaggi principali della prima parte del ‘900, protagonista del movimento socialista e comunista, esponente dell’antifascismo. Politico attivo e appassionato, giornalista, intellettuale impegnato in molte aree di ricerca e riflessione, protagonista anche della storia della pedagogia poiché ha elaborato e scritto diversi testi anche sull’educazione e sull’educare. I suoi scritti pedagogici sono stati pubblicati in più edizioni, e la loro scelta, impostazione e organizzazione hanno risentito del clima politico e culturale del tempo e del luogo in cui ciò accadeva. Ad oggi si assiste all’affermazione di un neoliberismo in grado di generare diffuso consenso attorno ai suoi principi e alle sue prassi attraverso educazione intenzionale ed esplicita, ma anche tramite educazione diffusa, informale, latente. In questo contesto, lo scopo del libro è quello di mettere a disposizione, in particolare per coloro che sono impegnati in ambito educativo, gli scritti pedagogici di Gramsci poiché ritenuti strumenti in grado di favorire lo sviluppo di un pensiero critico sull’educare, cioè un pensiero disvelante, inquieto, non pacificante.
I tempi però sono cambiati sia dalla sua epoca che da quella degli epigoni a partire dagli anni ’70. Chi domina il mondo e anche il paradigma dell’educazione come del lavoro non sono più i padroni di una volta e la scuola deve uscire decisamente dal recinto del suo attuale significato che è sostanzialmente globalizzato. Non bisogna sostituire un potere con un altro, attraverso una lotta di egemonie educative, ma liberare e liberarci tout court da qualsiasi dominio che in genere comincia ad esercitarsi prepotentemente e subdolamente proprio con l’istruzione quando viene ancora considerata un “lavoro” in preparazione di “una vita di lavoro” spesso sfruttata e strumentalizzata. L’educazione incidentale come parte integrante dell’educazione diffusa sarebbe la chiave di volta, insieme ai mentori e ai maestri delle arti e ai luoghi diffusi dove viverla, per una vera rivoluzione pedagogica, preludio ad una sottile, ostinata e contraria rivoluzione collettiva di natura economica e sociale.
Negli ultimi articoli e lettere sul Manifesto come peraltro su altri giornali progressisti che ho letto, anche europei, in una teoria crescente di presenze mediatiche divenuta parossistica di questi tempi in cui non si è mai parlato così tanto e spesso così male di scuola, ho trovato pur sempre gli stereotipati riferimenti, magari non al voto ma al giudizio, non alla discriminazione aperta ma al merito che, alla fine, altro non è se non una discriminazione occulta. Ho trovato luoghi comuni non superati come la scuola dell’obbligo, lo svantaggio (che è connaturato a questo modello di scuola) le discriminazioni che questa nostra scuola non potrà mai superare perché le contiene nella sua stessa ideologia. Sembra che il problema cruciale sia la didattica e le sue mille declinazioni. Sembra che si possa cambiare agendo solo sulle risorse economiche, sul voto, sullo zaino, sul rapporto docente discente, sulla disposizione di arredi e spazi o sulla progettazione di dorate avanguardiste gabbie scolastiche, come pure sulla leva della terribile meritocrazia o su palliative azioni di limitazione ed edulcorazione delle discriminazioni e del classismo tuttora presenti. Pochi mettono in discussione “la scuola” in sé, come se Montessori, Fourier, Freire, Freinet, Milani, Ward e tanti altri fossero passati invano con le loro idee di radicali cambiamenti spesso accolti solo parzialmente ed immobilmente quando non elitariamente. Capisco le riviste accreditate di pedagogia e scuola dove spesso sono ospitato (a volte quasi come un infiltrato) e la loro fatica a staccarsi dal termine “scuola” tanto da confondere il concetto di “Educazione diffusa”con quello, ormai obsoleto, da noi superato ed arcaico – seppure di questi tempi alquanto abusato- di “Scuola diffusa”.

Le diseguaglianze sociali non si superano con una scuola che resterebbe comunque mercantile e che continuerebbe ad essere valutata dallo stesso mercato (vedi OCSE, PISA, INVALSI…) che vuole alla fine persone addestrate e utili al suo mondo che oggi, come sempre, vediamo approfittare in ogni modo, persino con subdoli mezzi come la beneficienza e il mecenatismo, anche delle disgrazie dell’umanità. Gli insegnanti che si impegnano e che dubitano di molte cose della scuola purtroppo non riescono ancora ad uscire dal recinto in cui sono stati costretti e propongono soluzioni che spesso esasperano i problemi perché ne sono parte essenziale quando non vengono persino accolte come innovatrici perché in fine dei conti non ostacolano il cammino della scuola addestrativa e del controllo. Mi spiace che il pensiero di Gramsci non sia stato fatto evolvere verso i problemi di oggi e verso il concetto del superamento dell’idea di lavoro ovunque e comunque. Risibili le scaramucce tra docenti curricolari e di sostegno, tra didattica a distanza e in presenza o all’aperto per fare le stesse cose negli stessi modi. Niente si risolverà assolutamente dentro l’attuale modello educativo che è rimasto sostanzialmente lo stesso che ricordo amaramente appartenere alle mie esperienze di docente e preside da oltre vent’anni. Vere tante osservazioni e tante denunce ma inutili ed effimere le proposte che tuttosommato sono sempre là, dentro una falsa idea di educazione che considera marginali l’esperienza, il mondo esterno, la città, l’ambiente, la vita e ineluttabilmente necessari il controllo, la valutazione, la sicurezza, la gestione e l’organizzazione rigida di tempi, luoghi, materie, persone.

Il problema è la scuola tutta che a mio avviso non è migliorabile nè trasformabile. Essa è solo oltrepassabile e come scrive Paolo Mottana filosofo dell’educazione e promotore con me e tanti altri del Manifesto della educazione diffusa: “Occorre, non vorrei ripeterlo all’infinito, ABBATTERE LA SCUOLA, che IN SE’, intrinsecamente, è letteralmente costruita secondo lo schema dell’oppressione della forza lavoro, con gli stessi protocolli normativi, le stesse scissioni, lo stesso sfruttamento del tempo e della vita e con un destino evidente di fallimento dei suoi obiettivi piamente dichiarati (un po’ come quelli della costituzione tanto belli quanto costantemente traditi), rispetto a risultati quelli sì raggiunti, di produrre individui portatori di un sapere frammentato e inutilizzabile nella maggior parte dei casi, obbedienti e incapaci – nella grandissima maggioranza – di esercitare una cittadinanza critica, attiva e oppositiva.
Quindi, se si vuole cambiare, il primo passo è FARE FUORI LA SCUOLA, reimmettere bambini e ragazzi nel tessuto della vita reale facendo sì che questa vita reale, la nostra -DI NOI ADULTI- cambi e sia in grado di accoglierli e accompagnarli. Che il disegno dei nostri territori cambi, in modo da poterli ospitare mentre crescono verso la LORO AUTONOMIA, e non assorbendo il sapere che alcuni ritengono utile per loro per inserirsi al più presto nel mondo del lavoro. Per assicurargli, con L’EDUCAZIONE DIFFUSA che alcuni veri rivoluzionari della CONTROEDUCAZIONE hanno messo a punto, di individuare i LORO TALENTI, i LORO DESIDERI, e dare forma alla LORO VITA.”
Ci piacerebbe che vi fosse, da parte di un giornale che si definisce progressista e fautore del pensiero critico, un po’ più di attenzione verso ciò che si muove in linea con idee veramente libertarie e decisamente fuori dal recinto di questa scuola delle istituzioni che paradossalmente, parrebbe andar bene (con le dovute riformette partigiane) a tutto l’arco parlamentare, cespuglietti compresi, così come all’associazionismo parareligioso e assistenzialisti ed alle sue correnti della cura piuttosto che della liberazione.
Giuseppe Campagnoli, estate 2023