Ho ripescato, per rispondere con efficacia “storica” al ricorrente pernicioso compulsivo esternare di saggi, dotti e sapientini, ad ogni scadenza “scolastica”, uno scritto risalente a più di otto anni fa ma pubblicato nel 2017, agli esordi del progetto concreto di educazione diffusa.
Il pezzo prendeva le mosse da una situazione dell’istruzione italiana che non ha fatto che peggiorare tra conservatorismi incombenti e finte innovazioni da bricolage pedagogico. Mi pare che l’idea abbia fatto piccoli (numericamente) ma grandi e decisi (per la qualità delle condivisioni) passi da allora se siamo giunti a prefigurare un vero e proprio “Sistema dell’educazione diffusa” in corso di presentazione in varie città italiane con l’omonimo volume del Prof. Paolo Mottana che contiene anche un intervento dell’arch. Giuseppe Campagnoli relativo all’architettura dei portali dell’educazione diffusa (che sostituiscono il concetto di edilizia scolastica) e dei luoghi di una città educante.

Ci siamo venduti l’abbecedario come Pinocchio?
L’aspetto terrificante della questione, nonostante molti sostengano (non vorrei fossero tra i neo-analfabeti!) che internet abbia aumentato le conoscenze e le competenze dei navigatori italiani (sempre meno santi e poeti) è che il 5 per cento degli italiani non è in grado di distinguere tra lettere e cifre e non riesce a scrivere che in uno stampatello “cuneiforme”; il 40 per cento ha difficoltà evidenti nella lettura; il 30 per cento gravi difficoltà a comprendere ciò che legge: “un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile”. Il resto sono neonati o bambini in età pre-scolare. Solo il 20 per cento è in grado di usare la lingua e la comunicazione in modo efficace non solo quella tradizionale ma, ahimè, anche quella digitale! Questo si riflette in modo determinante su tutte le altre competenze, anche quelle logico-matematiche, creative o meramente operative. Come farebbe la maggioranza degli italiani a prendere delle decisioni sensate e a scegliere nella vita, nella politica, nel sociale, a distinguere semplicemente tra ciò che è bene o ciò che è male per sé stessi e per la collettività, senza possedere “gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”?

Fino alla istituzione della nuova scuola media unica (1963) uno studente medio al compimento dei quattordici anni (!) era in grado di leggere e comprendere, oltre ai classici fondamentali (anche, eventualmente per limitarne la portata) della letteratura italiana come Manzoni, Dante, Leopardi, Foscolo anche scrittori come Cesare Pavese. Oggi so, per esperienza professionale conclamata, che non è per nulla così, ahimè anche all’università e tra molti docenti in servizio nella scuola italiana. Non si riesce più ad instaurare un discorso, una semplice comunicazione, un dibattito con moltissime persone tra i venti e i cinquanta anni. Si ha la forte sensazione di non essere compresi e che tutto ciò che viene detto o scritto, spesso con estrema presunzione unita al non rendersi conto dei propri terribili limiti, è frutto di tanti “copia e incolla” materiali e mentali da quel terribile coacervo di nozioni e informazioni incontrollate e il più delle volte decisamente poco attendibili che è la tanto osannata “rete” dove per navigare, non esagero nell’affermarlo, ci vorrebbe una patente speciale!
Una volta, con umiltà, per crescere e continuare a studiare seriamente per tutta la vita, anche svolgendo i mestieri più pratici e meno intellettuali, si ammetteva di non sapere: “nescio nescire” dicevano i latini. Pochi sono consapevoli di non sapere, o di non sapere abbastanza per vivere in un consesso civile, per lavorare e per comunicare con gli altri in modo non istintivo, a volte belluino, sovente superficiale. Si vorrebbe vivere in una specie di paese dei balocchi dove tutto è semplice e quando non si riesca in qualche cosa per la propria incompetenza, ci si affretta a dare la colpa a qualcun altro: lo stato, la politica, il pubblico, il privato, la scuola e chi più ne ha più ne metta.
Le responsabilità ci sono ma vanno ben individuate con cognizione di causa. La scuola è diventata la speranza di soluzione per tutto. Ma è ancora chiusa fisicamente e idealmente è controllata da programmi, burocrazie e indirizzi. Di fatto è così. È da lì che proviene la comprensione delle cose e la capacità di discernere e di decidere. Un nuovo fallimento nel rifondare la scuola sarà il fallimento per tutto il resto. Pensiamoci bene ed evitiamo di fare demagogia o populismo.

Abbiamo già affrontato il problema scuola e proposto alcune soluzioni tanto per partire con il piede giusto. Questi i punti essenziali e, a nostro avviso, irrinunciabili da cui deriverebbe una organizzazione ribaltata del concetto di scuola per andare decisamente oltre.
- Rivoluzione sottile dei concetti di educazione, istruzione e formazione per rafforzarne i significati collettivi e diffusi. La controeducazione è “l’affinamento molteplice della nostra sensibilità, del nostro gusto, della nostra capacità di fare di ogni gesto della vita una continua occasione di arricchimento plenario, dove la testa che conosce non è mai staccata dal corpo che sente e dove il godimento del corpo che sente non è mai staccata da una testa che percepisce, elabora, assorbe in un reticolo di corrispondenze di illimitata potenza”, Paolo Mottana in Controeducazione. Non più maestri e scolari ma guide ed esploratori della conoscenza e del fare sparsi per le città e i territori.
- Ridefinizione dei luoghi dell’apprendere in una accezione di ricerca, scoperta scambio diffuse a tutta la città, e al territorio. Ogni luogo è atto all’educazione purché se ne esalti il significato didascalico e di formazione collettiva seguendo un filo rosso tra interessi individuali e necessità collettive. L’ultrarchitettura e la scuola diffusa è andare oltre la funzione codificata dei manufatti – scuole, musei, botteghe, teatri… – e dei luoghi – piazze, strade, radure, boschi… – per renderli virtuosamente eclettici, sottratti al mercato e restituiti alla collettività anche in funzione educante.
Non si esaurisce qui il problema ma i capisaldi imprescindibili sono quelli indicati e se non si affronterà la situazione in questo modo l’Italia e forse il mondo intero non si riprenderanno mai dalla perniciosa malattia del mercato e del dominio. Cerchiamo di riscattare l’abbecedario dalle lusinghe di Lucignolo e dalla furbesca perfidia del Gatto e della Volpe mercanti, ladri e truffatori che poi, anche per i classici, coincidevano in Mercurio dio di entrambi. Leggerete tutto meglio e in profondità nel libro in pubblicazione La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa di Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli.
L’immagine in evidenza per gentile concessione della Scuola Elica Interetnica di Cagliari.